import export e fiscalità

Import Export e Fiscalità

Gli approfondimenti del Dott. Cavallari riguardanti la fiscalità dell'Import & Export

 

Residenza persone fisiche e AIRE - doppie imposizioni e agevolazioni impatriati

Residenza persone fisiche e AIRE

La residenza delle persone fisiche è ancorata alla sussistenza di uno dei requisiti espressamente disciplinati dal TUIR, cioè iscrizione all'Anagrafe della popolazione residente e il possesso della dimora o del domicilio nel territorio dello Stato. La giurisprudenza e la prassi attualmente propongono una valutazione complessiva, sia degli elementi patrimoniali, sia di quelli appartenenti alla sfera affettivo-personale, per potere individuare la residenza degli individui.

Inquadramento

L'art. 2 c. 1 DPR 917/1986 dispone che “Soggetti passivi dell'imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato”. Per i residenti, il successivo art. 3 c. 1 prevede la tassazione dei redditi ovunque prodotti (cd. “worldwide taxation income principle”). Tale principio è fondato su un criterio di collegamento soggettivo tra fatto generatore del reddito ed ordinamento giuridico, costituito dal possesso della residenza fiscale.

L'art. 2 DPR 917/1986:

- definisce il concetto di residenza fiscale (art. 2 c. 2 DPR 917/1986), che sussiste se ricorre alternativamente una delle seguenti condizioni: la residenza anagrafica, il domicilio civilistico o la residenza civilistica;

- prevede una specifica ipotesi di presunzione di residenza fiscale in Italia, che opera nel caso in cui il contribuente si sia trasferito in un Paese a fiscalità privilegiata (art. 2 c. 2-bis DPR 917/1986).


Condizioni della residenza delle persone fisiche in Italia

Dispone l'art. 2 c. 2 DPR 917/1986 che, ai fini delle imposte sui redditi, sono considerati residenti coloro che, per la maggior parte del periodo d'imposta, alternativamente:

- sono iscritti nelle Anagrafe comunale della Popolazione Residente (requisito di natura formale);

- hanno il domicilio nel territorio dello Stato ai sensi dell'art. 43 co. 1 c.c. (requisito di natura sostanziale);

- hanno la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell'art. 43 co. 2 c.c. (requisito di natura sostanziale).

Ad un criterio di tipo formale, cioè il primo di quelli elencati, si affiancano due criteri che fanno riferimento alla situazione di fatto; tali presupposti sono posti in rapporto di alternatività, essendo sufficiente dunque che si verifichi, per la maggior parte del periodo di imposta, uno solo dei tre requisiti sopra elencati perché la persona fisica sia considerata residente in Italia.

Sebbene i concetti civilistici di domicilio (l'art. 43 c.c. definisce il domicilio di una persona come il luogo in cui essa ha stabilito “la sede principale dei suoi affari ed interessi”) e residenza (la residenza è “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”), siano tenuti distinti, la norma fiscale rinvia indifferentemente ad entrambi: quindi può essere considerato fiscalmente residente in Italia anche il soggetto che sia residente in Italia ma abbia il domicilio all'estero, oppure colui che abbia il domicilio in Italia e la residenza all'estero.

Il primo dei criteri di cui sopra, cioè le risultanze dell'Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR), è un registro nel quale sono annotate le persone che vivono in un determinato Comune italiano in un determinato momento.

Configura quale requisito necessario per essere iscritti nell'Anagrafe Comunale della Popolazione Residente:

- l'aver fissato la propria dimora abituale in quel Comune;

- per le persone non aventi fissa dimora, l'aver stabilito il domicilio nell'ambito di esso.

Affinché la residenza di un individuo si consideri radicata in Italia, è sufficiente che si verifichi la ricorrenza di anche uno soltanto dei requisiti di cui sopra, purché lo stesso sussista per un determinato lasso temporale, cioè “per la maggior parte del periodo di imposta”. Sebbene la norma non specifichi tale periodo di tempo, l'Agenzia delle Entrate ha provveduto a colmare tale lacuna normativa (Circ. Min. 17 agosto 1996 n. 201/E), stabilendo che:

- se l'anno è di 365 giorni, un individuo si considera residente nel territorio dello Stato se ivi trascorre un periodo pari a 183 giorni, anche non continuativi;

- se l'anno è di 364 giorni, il periodo richiesto al fine del radicamento della residenza di un individuo è di 184 giorni.

Si precisa tuttavia che, per la complessità delle valutazioni sottese all'interpretazione di tale locuzione, la determinazione della residenza delle persone fisiche non può formare oggetto dell'istanza di interpello di cui all'art. 11 L. 212/2000 (Circ. AE 1° aprile 2016 n. 9/E).

Il criterio maggiormente utilizzato per determinare la residenza fiscale di un individuo è il domicilio: in proposito la giurisprudenza di legittimità maggioritaria e la prassi si sono interrogate circa il significato da attribuire alla locuzione “affari ed interessi”.


Posizione AE sull'individuazione della residenza

L'Agenzia delle Entrate, sin dalla Circ. AE 2 dicembre 1997 n. 304/E ha sostenuto che la locuzione “affari ed interessi”, di cui all'art. 43 c. 1 c.c., deve intendersi in senso ampio, quindi come comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica, ma anche morali, sociali e familiari.

Con riguardo alla residenza il documento precisa che la stessa “è determinata dall'abituale volontaria dimora di una persona in un datoluogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia l'elemento soggettivo della volontà di rimanervi, la quale, estrinsecandosi in fatti univoci evidenzianti tale intenzione, è normalmente compenetrata nel primo elemento”.

Prosegue la Circolare che, affinché sussista “il requisito dell'abitualità della dimora, non è necessaria la continuità o la definitività qualora il soggetto lavori o svolga altre attività al di fuori del Comune di residenza (del territorio dello Stato), purché conservi in esso l'abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l'intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali”.

Pertanto, in tale ottica, la residenza non viene meno per assenze più o meno prolungate, dovute alle particolari esigenze della vita moderna, quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago.

Rispetto alla definizione di domicilio, l'Agenzia delle Entrate afferma che lo stesso prescinde dalla presenza effettiva in un luogo, dovendosi fare riferimento ad un elemento soggettivo, cioè al luogo in cui la persona ha deciso di stabilire la sede principale dei suoi affari ed interessi.

Quest'ultima locuzione è stata intesa “in senso ampio, comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari […] sicché la determinazione del domicilio va desunta alla stregua di tutti gli elementi di fatto che, direttamente o indirettamente, denuncino la presenza in un certo luogo di tale complesso di rapporti e il carattere principale che esso ha nella vita della persona”.

A tale proposito, ancor prima, la Ris. Min. 14 ottobre 1988 n. 8/1329 aveva sostenuto che la residenza fiscale in Italia si concretizza qualora “la famiglia dell'interessato abbia mantenuto la dimora in Italia durante l'attività lavorativa all'estero” o, comunque, nel caso in cui “emergano atti o fatti tali da indurre a ritenere che il soggetto interessato ha quivi mantenuto il centro dei suoi affari ed interessi”.

In tale contesto “la rilevanza assunta dall'elemento soggettivo e soprattutto l'estensione dell'inciso affari ed interessi ai rapporti di natura non patrimoniale fa sì che la nozione di domicilio sfugga a criteri di valutazione meramente quantitativi, prestandosi piuttosto ad essere valutata per lo più in base a criteri di carattere qualitativo. Pertanto, la circostanza che il soggetto abbia mantenuto in Italia i propri legami familiari o il centro dei propri interessi patrimoniali e sociali deve ritenersi sufficiente a dimostrare un collegamento effettivo e stabile con il territorio italiano”.

Dato questo quadro, il documento in questione raccomanda agli Uffici di reperire, nell'ambito della loro attività investigativa, tutti gli elementi concreti di provain ordine sia “ai legami familiari o comunque affettivi e all'attaccamento all'Italia” che “agli interessi economici in Italia” e di far scaturire dalle indagini una “valutazione d'insieme dei molteplici rapporti che il soggetto intrattiene nel nostro Paese; valutazione che, indipendentemente dalla presenza fisica e dalla sola attività lavorativa, esplicata prevalentemente all'estero, consenta di stabilire che la sede principale degli affari ed interessi deve situarsi nel territorio dello Stato italiano: perché in esso disponga di una abitazione permanente, mantenga una famiglia, accrediti i propri proventi dovunque conseguiti, ecc…”.

La Ris. AE 7 agosto 2008 n. 351/E ha reiterato le conclusioni appena rassegnate, ribadendo che occorre “una valutazione d'insieme dei molteplici rapporti che il soggetto intrattiene nel nostro Paese” e che lo status di residente fiscale implica “l'esame delle possibili relazioni - sia personali che reali - con il Paese, che non può essere effettuata in sede di interpello, ma solo in sede di eventuale accertamento”.

Nel tenore della successiva Risp. AE 4 ottobre 2018 n. 25 (riguardante un soggetto che lavorava in Lussemburgo e tornava “regolarmente in Italia a trovare la sua famiglia”), diversamente, le valutazioni di cui sopra non sembrano essere dirimenti ai fini della determinazione della residenza fiscale di un individuo: “la circostanza rappresentata dall'istante, secondo cui la sua famiglia risiede in Italia e il contratto di affitto e le utenze sono intestate a suo nome, potrebbe indurre a ritenere che lo stesso abbia nel nostro Paese il proprio domicilio ai sensi dell'art. 43 del c.c., inteso come luogo in cui una persona, a prescindere dalla reale presenza fisica del soggetto, ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”.

Da ultimo, nella Risp. AE 22 luglio 2019 n. 294, che si colloca “a metà” tra le due posizioni della prassi, sopra enucleate, l'Agenzia delle Entrate ha affermato che la sede principale degli affari ed interessi “deve intendersi in senso ampio, comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari” e che “la giurisprudenza italiana ha inteso dare particolare rilievo, quale criterio di individuazione della residenza fiscale di una persona fisica, al luogo nel quale sono prioritariamente localizzati gli interessi economici ed affettivi della persona”. Il tutto con la precisazione che tale luogo va identificato “partendo dalla sfera delle relazioni personali, intese come vincoli familiari”.

Mette conto precisare che il condivisibile principio di necessità di una valutazione complessiva degli interessi sia economici che affettivi - che è stato, peraltro, ribadito nella stessa Risp. AE 22 luglio 2019 n. 294 - debba avvenire senza attribuire prevalente rilevanza agli uni o agli altri.

Nella recente Risp. AE 20 gennaio 2023 n. 119, l'AE ha precisato che, per la determinazione della residenza del soggetto in Italia, il cd. visto per residenza elettiva (lo stesso consente l'ingresso in Italia al soggetto che ivi intende stabilirsi e sia in grado di mantenersi autonomamente senza esercitare in Italia alcuna attività lavorativa; a tal fine, devono essere fornire documentate garanzie, circa la disponibilità delle risorse economiche di cui sia ragionevolmente possibile supporre la continuità nel futuro, ma anche di un'abitazione principale da eleggere a residenza) non equivale all'iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente. In ogni caso, tale criterio non sarebbe dirimente, perchè ciò che conta è che in Italia siano radicati il domicilio ovvero la residenza ai sensi del c.c..


Posizione della giurisprudenza sull'individuazione della residenza

La Corte di cassazione ha espresso nel tempo posizioni difformi circa i requisiti da prendere a riferimento per la corretta individuazione della residenza fiscale delle persone fisiche.

In un primo momento, infatti, è stata affermata la prevalenza ai rapporti di natura affettiva e familiare, facendo riferimento anche alla giurisprudenza della CGUE, secondo la quale “ai fini della determinazione del luogo della residenza normale, devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell'interessato in un luogo determinato, sia la loro durata, e, qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, l'art. 7, n. 1, comma 2, della Direttiva 83/182/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali” (Cass. 15 giugno 2016 n. 12311; Cass. 4 settembre 2013 n. 20285; Cass. 15 giugno 2010 n. 14434; Cass. 19 maggio 2010 n. 12259).

Secondo le pronunce appena ricordate, è necessario, nell'ambito della valutazione dei legami personali e professionali dell'interessato, che siano presi in considerazione tutti gli elementi di fatto rilevanti, quali la presenza fisica di quest'ultimo nonché quella dei suoi familiari, la disponibilità di un'abitazione, il luogo di esercizio delle attività professionali e quello in cui vi siano interessi patrimoniali.

Successivamente, in occasione della Cass. 31 marzo 2015 n. 6501, la Corte di Cassazione ha modificato la propria posizione sull'argomento, statuendo che “il centro degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi […] Le relazioni affettive e familiari - la cui centrale importanza è invocata dalla ricorrente Agenzia al fine della residenza fiscale - non hanno una rilevanza prioritaria ai fini probatori della residenza fiscale, venendo in rilievo solo unitamente ad altri probanti criteri - idoneamente presi in considerazione nel caso in esame - che univocamente attestino il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento”.

Nella stessa sentenza è stato comunque ribadito che il domicilio va “inteso come la sede principale degli affari e degli interessi economici nonché delle relazioni personali come desumibile da elementi presuntivi”.

Nella successiva Cass. 20 dicembre 2018 n. 32992 (inerente alla individuazione della residenza fiscale di un imprenditore che aveva “moglie e figlia minore in Italia”, ed ivi possedeva un'abitazione ed “un apprezzabile patrimonio”) la CTR aveva ritenuto che il centro degli interessi vitali del contribuente fosse individuabile in Romania, dove svolgeva l'attività di amministratore unico della società appartenente al figlio, ivi residente. La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso dell'Agenzia delle Entrate - la quale aveva sostenuto che si sarebbe dovuto dare “prevalenza ai legami personali rispetto a quelli professionali” -, ritenendo che il giudice di merito, “con una valutazione globale, congruamente motivata, che ha tenuto conto sia dei legami personali sia di quelli professionali, ha privilegiato l'individuazione del centro di interessi in Romania dando atto che i legami familiari sussistevano tanto ivi, quanto in Italia” (anche Cass. 25 maggio 2022 n. 16954).

Anche in questo caso è stata dunque confermata la necessità di una valutazione globale dei legami personali e di quelli lavorativi ed economici, che deve essere effettuata caso per caso dal giudice di merito, senza dare la prevalenza agli uni o agli altri.

Il fatto che il precedente orientamento, ancorato anche alla giurisprudenza comunitaria, sia stato superato è testimoniato dalla Cass. 1° marzo 2019 n. 6081, in occasione della quale è stato precisato che il concetto di domicilio “va valutato in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti personali che economici” e che il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, deve “intendersi nel senso di ricomprendervi anche gli interessi personali”. Ad analoghe conclusioni sono pervenute le Cass. 8 ottobre 2020 n. 21694, 21695 e 21696.

In particolare, la Cass. 8 ottobre 2020 n. 21694 ha confermato la valutazione contenuta nella pronuncia di merito, ritenendola “correttamente operata con un giudizio globale e, al contempo, specifico, che ha tenuto conto di tutti gli elementi e documenti prodotti dalle parti, sia patrimoniali che personali”. Anche nella Cass. 8 ottobre 2020 n. 21695 è stata ritenuta legittima la “ricostruzione di tutti gli elementi e documenti in atti, sia […] patrimoniali che personali”.

Nella recente Cass. 18 marzo 2021 n. 7621, è stato affermato che il domicilio va “inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali” e che il giudice del merito deve effettuare “l'indispensabile valutazione complessiva degli indizi”.

La Corte di cassazione, sez. penale, ha successivamente ribadito, nella Cass. pen. 23 aprile 2021 n. 15314, quest'ultima nozione di domicilio e confermato la decisione dei giudici di merito, che avevano ritenuto che il centro principale degli affari e interessi economici del ricorrente fosse in Italia, dove il contribuente aveva i propri “interessi economici, oltre che almeno di una parte delle proprie relazioni personali e affettive”. È stato, inoltre, ancora una volta precisato che non rivestono un “ruolo prioritario […] le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento”.

Anche nella Cass. 25 maggio 2021 n. 14240, è stato confermato che il concetto di interessi va inteso “nel senso di ricomprendervi anche gli interessi personali” ed è stata cassata la sentenza di merito perché nella stessa era stata circoscritta l'indagine “al centro degli affari, come radicato in Italia, con ciò dimostrando di non soppesare adeguatamente gli altri interessi, personali, familiari e lavorativi condotti in Svizzera”. Nella Cass. 15 luglio 2021 n. 20140, è stato, da ultimo, ribadito che al giudice del merito è demandato l'accertamento “in ordine alla residenza effettiva del contribuente, per l'indispensabile valutazione complessiva degli indizi […] relativi alla pretesa persistenza nel territorio nazionale, per la maggior parte del periodo d'imposta, della sede principale degli interessi economici e personali del contribuente”. Tale giurisprudenza è stata recentemente confermata, ribadendosi che il domicilio di un individuo debba essere inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi; il concetto di domicilio va valutato cioè in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti personali che quelli economici, dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche degli interessi personali (Cass. 6 giugno 2022 n. 18009).

Tale orientamento, allo stato attuale, risulta essere quello maggioritario, sebbene non siano mancate pronunce di segno contrario: infatti nella già richiamata Cass. 1° luglio 2021 n. 18702 la Corte ha fatto riferimento alla normativa unionale (cioè la Dir. 1983/182/CE) la quale, in materia di importazione, stabilisce che “nel caso di una persona i cui legami professionali siano risultati in un luogo diverso da quello dei suoi legami personali e che pertanto sia indotta a soggiornare alternativamente in luoghi diversi situati in due o più Stati membri, si presume che la residenza normale sia quella del luogo dei legami personali, purché tale persona vi torni regolarmente”.

Circa la effettiva valenza di tali richiami, è stato osservato che la normativa e la giurisprudenza richiamate non fanno riferimento a principi e libertà fondamentali ma riguardano materie specifiche, quali l'importazione temporanea di taluni mezzi di trasporto e la disciplina della patente di guida: le stesse non dovrebbero, pertanto, influenzare l'interpretazione della normativa interna.

Nella Cass. 4 maggio 2021 n. 11620, è stato, al contrario, precisato che la residenza della persona fisica, “secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, alla quale deve darsi continuità, va individuata in relazione alla gestione degli interessi e degli affari economico-patrimoniali, prioritariamente rispetto al luogo delle relazioni affettive e familiari”.

Circa l'effettivo peso da attribuire a tali pronunce, si è raggiunta la conclusione che si tratti di casi isolati rispetto al condivisibile orientamento maggioritario e che le stesse siano state pronunciate senza avere la consapevolezza che le posizioni in esse adottate fossero obsolete.


Trasferimento della residenza in un paradiso fiscale

Nel tenore dell'art. 2 c. 2-bis DPR 917/1986, si considerano residenti in Italia, salvo prova contraria, i cittadini italiani che hanno cancellato la propria iscrizione all'Anagrafe della Popolazione Residente e si sono trasferiti in un paradiso fiscale.

Rispetto a quanto avviene nel caso di trasferimento in un Paese che non sia considerato un paradiso fiscale, in tal caso si verifica un'inversione dell'onere della prova: spetta al cittadino trasferito in un paradiso fiscale dimostrare l'effettività del proprio trasferimento all'estero. Ove questi non riesca a fornire tale prova, è possibile ritenere, in via presuntiva, che egli sia tuttora residente fiscalmente in Italia (Circ. Min. 24 giugno 1999 n. 140/E); ciò comporta che continuino ad essere assoggettati a tassazione in Italia tutti i redditi dell'individuo (Risp. AE 17 gennaio 2023 n. 55; 20 gennaio 2023 n. 123; 27 gennaio 2023 n. 173).

Gli stati dotati di un regime fiscale privilegiato sono oggetto di inserimento nell'apposito elenco di cui al DM 4 maggio 1999.


Iscrizione all'AIRE e Convenzione contro le doppie imposizioni

Il trasferimento della residenza all'estero per un periodo superiore a 12 mesi comporta l'obbligo di iscrizione all'AIRE (Anagrafe dei Cittadini Italiani Residenti all'Estero).

L'iscrizione all'AIRE rappresenta un "diritto-dovere" del cittadino, in quanto è condizione per l'esercizio di importanti diritti ex art. 6 L. 470/1988 (come, ad esempio, la possibilità di esercitare il diritto di voto per corrispondenza nel paese di residenza).

Nel caso in cui all'iscrizione anagrafica non corrisponda la situazione di fatto, una possibile conseguenza è un conflitto di residenza. Infatti, ove una persona fisica effettivamente emigrata all'estero non abbia perfezionato la propria iscrizione all'AIRE:

- è considerata residente in Italia dall'Agenzia delle Entrate, in quanto non iscritta all'AIRE;

- potrebbe essere considerata residente nello Stato in cui è emigrata a norma delle leggi di quello Stato.

Tale conflitto è risolto applicando le disposizioni delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, atteso che esse configurano fonte sovraordinata rispetto a quelle del diritto interno. Le stesse contengono di regola una serie di tie breaker rules previste all'art. 4, la cui applicazione per risolvere i casi di “doppia residenza” deve avvenire rigorosamente nell'ordine prestabilito dalla disposizione.

L'applicazione dei criteri di cui alle convenzioni contro le doppie imposizioni è inoltre funzionale alla determinazione della residenza di quei soggetti che trasferiscano la propria residenza in Italia e intendano fruire del regime dei cd. “impatriati” (di cui all'art. 16 c. 5-ter D.Lgs. 147/2015), anche nell'ipotesi in cui gli stessi non siano stati iscritti all'AIRE e siano rientrati in Italia alla data del 1° gennaio 2020, purché gli stessi risultino essere stati residenti in un diverso Stato ai sensi delle Convenzioni contro le doppie imposizioni sui redditi nei due periodi anteriori al trasferimento. La disposizione è volta a consentire di dimostrare il possesso del requisito della residenza estera sulla base di elementi probatori di natura sostanziale, che permettano, ai sensi delle Convenzioni internazionali, di superare il requisito formale della mancata iscrizione all'AIRE, o dell'iscrizione per un periodo insufficiente (Circ. AE 28 dicembre 2020 n. 33/E).

La valenza da attribuirsi all'iscrizione all'AIRE è dibattuta in giurisprudenza: secondo una parte di essa (Cass. 25 giugno 2018 n. 16634), la stessa configurerebbe una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia (diversamente da quanto avviene in ambito civilistico, secondo la cui giurisprudenza le risultanze anagrafiche possono dar luogo unicamente a presunzioni semplici: Cass. 27 settembre 1996 n. 8554), da cui scaturirebbe necessariamente l'assoggettamento alle imposte sul reddito in Italia.

Secondo una differente giurisprudenza di legittimità, la cancellazione dall'Anagrafe della Popolazione Residente e l'Iscrizione nell'Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero non sono elementi sufficienti per poter escludere che un individuo possieda in Italia la propria residenza fiscale.

Infatti, secondo tali pronunce, per escludere la sussistenza della residenza nel territorio dello Stato, è necessario anche che il soggetto in questione non possieda in Italia né la residenza, né il domicilio (Cass. 15 marzo 2013 n. 6598; Cass. 4 aprile 2012 n. 5382; Cass. 8 ottobre 2020 n. 21694; Cass. 26 febbraio 2007 n. 4303).

Secondo la Corte di Cassazione, il legislatore ha scelto di ancorare l'imposizione reddituale all'esistenza di un “collegamento fisico tra il contribuente e il territorio dello Stato, che non si esaurisce nella localizzazione in Italia della sola residenza anagrafica ma investe anche la prova del domicilio che, stante il rinvio recettizio contenuto nell'art. 2, comma 2, TUIR, va qualificato secondo la disciplina di diritto comune come sede principale di affari e interessi della persona fisica” (Cass. 4 maggio 2021 n. 11620).

Per concludere, aggiungono i giudici di legittimità, l'individuazione del domicilio deve essere riconoscibile a terzi per poter assumere rilevanza e tale riconoscibilità deve essere individuata in relazione alla gestione degli interessi e degli affari economico-patrimoniali in via prioritaria rispetto al luogo delle relazioni affettive e familiari (Cass. 20 dicembre 2018 n. 32992). Il domicilio, quindi, per ancorare la residenza fiscale, non solo deve prolungarsi per la maggior parte del periodo di imposta, ed essere riconoscibile dai terzi, ma tale riconoscibilità deve essere agganciata in primis agli interessi economico-patrimoniali del contribuente (Cass. 4 maggio 2021 n. 11620).

Ove l'Amministrazione finanziaria intenda sostenere che la residenza all'estero del contribuente sia fittizia, è tenuta a fornire la prova di tale assunto, dimostrando la sussistenza, in Italia, della residenza o del domicilio.


Conflitti di doppia residenza

Come anticipato, può accadere che un medesimo contribuente risulti, in base alle legislazioni nazionali di due paesi, fiscalmente residente in entrambi: in tale circostanza si farà riferimento alla Convenzione contro le doppie imposizioni in essere tra i Paesi in questione.

Le Convenzioni in questione prendono per lo più a riferimento il Modello elaborato dall'OCSE, il cui art. 4 spiega che, per le persone fisiche, si considera residente “ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggettata ad imposta, a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione, o di ogni altro criterio di natura analoga”.

Il superamento del conflitto avviene attraverso il ricorso ad una serie di criteri (tie breaker rules), da applicarsi tassativamente nell'ordine gerarchico in cui sono elencati, ossia:

  • abitazione permanente;
  • centro degli interessi vitali;
  • luogo di soggiorno abituale;
  • nazionalità;
  • accordo fra gli Stati (criterio residuale).

Le Convenzioni contro le doppie imposizioni si pongono quali fonte sovraordinata rispetto alle norme nazionali, sono quindi prevalenti e si applicano a discapito di quelle interne, se più favorevoli rispetto queste ultime (cfr. art. 75 DPR 600/73 e art. 117 Cost.; cfr. Risp. AE 17 gennaio 2023 n. 55), ed in quanto sono norme “speciali” (Cass. 25 maggio 2021 n. 14240). Tuttavia, in base all'art. 169 TUIR, le disposizioni dello stesso “si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione”.

Le disposizioni convenzionali non possono determinare l'insorgenza di obblighi fiscali ulteriori e, pertanto, uno Stato può esercitare la potestà impositiva attribuitale in forza delle Convenzioni solo se ciò è previsto dalla norma interna.

Con riguardo all'eventualità in cui il contribuente trasferisca la residenza in Italia in corso d'anno, il conflitto di residenza che ne può conseguire (ciò derivando dall'applicazione della legislazione interna italiana e di quella del Paese estero di riferimento), può essere risolto facendo ricorso, per le Convenzioni che la contengono, alla clausola del cd. “split year”: è ivi stabilito che la persona fisica che trasferisce definitivamente il suo domicilio da uno Stato contraente all'altro Stato “cessa di essere assoggettata nel primo Stato contraente alle imposte per le quali il domicilio è determinante non appena trascorso il giorno del trasferimento del domicilio. L'assoggettamento alle imposte per le quali il domicilio è determinante inizia nell'altro Stato a decorrere dalla stessa data” (Risp. AE 17 gennaio 2023 n. 54; 19 gennaio 2023 n. 98).

Nell'ipotesi in cui il lavoratore dipendente di una società estera e residente in Italia, non si sia potuto trasferire all'estero a causa delle restrizioni alla circolazione imposte dalla pandemia da Covid – 19, lo stesso deve considerarsi fiscalmente residente in Italia nell'anno di riferimento, qualora, come da espressa previsione della Convenzione applicabile al caso di specie, lo stesso permanga in Italia per un periodo che eccede i 91 giorni (Risp. AE 17 gennaio 2023 n. 50).


Adempimenti a carico del contribuente che trasferisca la residenza all'estero

Circa gli adempimenti che devono essere assolti nel caso in cui l'individuo trasferisca la propria residenza all'estero, a norma dell'art. 6 c. 1 L. 470/1988, “i cittadini italiani che trasferiscono la loro residenza da un comune italiano all'estero devono farne dichiarazione all'ufficio consolare della circoscrizione di immigrazione entro novanta giorni dalla immigrazione”.

Il trasferimento della residenza all'estero, in base alla previsione di cui all'art. 6 c. 9-bis L. 470/1988, ha effetto dal momento della dichiarazione resa all'ufficio consolare, “qualora non sia stata già resa la dichiarazione di trasferimento di residenza all'estero presso il comune di ultima residenza, a norma della vigente legislazione anagrafica”.

Tale norma è finalizzata ad evitare situazioni in cui, per ritardi burocratici, intercorra un lasso di tempo notevole tra il momento in cui viene presentata la domanda e la sua ricezione da parte dell'Ufficio, determinando così ricadute in fatto di accertamento della residenza fiscale.

Nello specifico, il problema si pone con riguardo al disposto di cui all'art. 16 c. 3 ultimo periodo DL 22/2019, ai sensi del quale le dichiarazioni di trasferimento della residenza presentate anteriormente al 26 marzo 2019 (i.e. data di entrata in vigore del decreto) “e non ancora ricevute dall'ufficiale di anagrafe hanno decorrenza dalla medesima data”.

La regola dell'efficacia del trasferimento dal momento della dichiarazione varrebbe, quindi, anche per le dichiarazioni di trasferimento presentate fino al 25 marzo 2019, nel vigore della “vecchia” disciplina (che, invece, dava rilievo al momento della ricezione), a condizione però che esse non siano ancora state ricevute dall'ufficiale di anagrafe. Tale soluzione è stata confermata anche dalla prassi dell'Agenzia delle Entrate (Risp. AE 18 luglio 2019 n. 270).

I cittadini che si rechino all'estero per cause di durata limitata non superiore a 12 mesi non devono effettuare l'iscrizione all'AIRE (art. 1 c. 8 L. 470/1988).

Inoltre, a norma dell'art. 1 c. 933 L. 470/1988, non devono iscriversi all'AIRE:

- i cittadini che si recano all'estero per l'esercizio di occupazioni stagionali, nonché dirigenti scolastici, docenti e personale amministrativo della scuola collocati fuori ruolo ed inviati all'estero nell'ambito di attività scolastiche fuori dal territorio nazionale;

- “i dipendenti di ruolo dello Stato in servizio all'estero e le persone con essi conviventi, i quali siano stati notificati alle autorità locali ai sensi delle convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e sulle relazioni consolari, rispettivamente del 1961 e del 1963, ratificate con legge 9 agosto 1967, n. 804”.


Attività di vigilanza dell'AE

L'Agenzia delle Entrate, in collaborazione con i Comuni, svolge inoltre una specifica attività di vigilanza volta ad ostacolare il fittizio trasferimento all'estero della residenza, per ottenere vantaggi fiscali.

Entro 6 mesi da ogni richiesta di iscrizione all'AIRE, il Comune conferma all'ufficio dell'Agenzia delle Entrate competente che questi ha effettivamente cessato la residenza in Italia, in relazione all'ultimo domicilio fiscale del contribuente. Per i successivi 3 anni, poi, il Comune vigilerà sulla persistenza della condizione della cessazione della residenza in Italia.

Inoltre, l'art. 83 c. 17-bis e 17-ter DL 112/2008, ha stabilito che i dati di coloro che richiedono l'iscrizione all'AIRE siano resi disponibili all'Agenzia delle Entrate entro 6 mesi dalla richiesta, al fine della formazione di liste selettive per i controlli relativi ad attività finanziarie ed agli investimenti patrimoniali esteri non dichiarati.

Infine, con il Provv. AE 3 marzo 2017 n. 43999, è stata data attuazione alla norma, individuando le modalità di comunicazione e i criteri per la formazione delle liste selettive.

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