La Corte di Giustizia è tornata ad occuparsi di recente di finanziamenti infruttiferi (C.Giust. UE 24 febbraio 2022 C-257/20, Viva Telecom Bulgaria).
Va detto che la tematica è attuale e di sicuro interesse, da un lato per le possibili contestazioni in materia di prezzi di trasferimento, dall'altro lato per le ricadute sugli obblighi di sostituzione per le ritenute sugli “interessi figurativi” derivanti dall'applicazione dell'arm's length principle.
I giudici di Lussemburgo, nella citata sentenza “Viva Telecom Bulgaria”, si occupano appunto di questo ulteriore aspetto, statuendo che l'applicazione di una ritenuta sugli “interessi figurativi” non sarebbe contraria né alla Direttiva Interessi e Royalties Dir. 2003/49/CE, né alla Direttiva Madre-Figlia Dir. 2011/96/UE.
Finanziamenti infruttiferi e assoggettamento alla normativa sui prezzi di trasferimento
La prima questione che si pone è se i finanziamenti infruttiferi siano soggetti - o meno - alla disciplina dei prezzi di trasferimento.
La Corte di Cassazione ha fatto registrare due diversi filoni interpretativi sul punto.
In un primo tempo, la Suprema Corte si è espressa a favore della tesi per cui la normativa sul transfer pricing non potrebbe applicarsi ai finanziamenti infruttiferi, essendo estraneo a tale “schema negoziale” lo stesso componente positivo di reddito da “misurare” (Cass. 19 dicembre 2014 n. 27087; in senso conforme Cass. 17 luglio 2015 n. 15005).
Tale conclusione dei giudici di legittimità non è passata indenne da critiche.
Più di recente la Corte di Cassazione ha “corretto il tiro” e ha affermato che anche i finanziamenti intercompany infruttiferi rientrerebbero nell'ambito di applicazione della normativa sui prezzi di trasferimento. In altre parole, l'eventuale natura gratuita, pure convenuta tra le parti contrattualmente, non potrebbe assicurare la disapplicazione della normativa in materia di prezzi di trasferimento. Così, in particolare, si è espressa la Corte di Cassazione, per cui “la valutazione in base al valore normale prescinde dalla capacità originaria dell'operazione di produrre reddito e, quindi, di qualsivoglia obbligo negoziale delle parti attinente al pagamento del corrispettivo. ... Va aggiunto che sarebbe chiaramente irragionevole, e fonte di condotte agevolmente dirette a sottrarsi alla normativa de qua, ritenere che l'amministrazione possa esercitare tale potere di rettifica in caso di operazioni con corrispettivo inferiore a quello normale ed anche irrisorio, mentre ciò le sia precluso nell'ipotesi di contratti a titolo gratuito” (Cass.,15 aprile 2016 n. 7493; Cass. 30 giugno 2016 n. 13387; Cass. 15 novembre 2017 n. 27018; Cass. 17 gennaio 2019 n. 1102; da ultimo Cass. 12 ottobre 2021 n. 27636).
Le “ragioni economiche” che possono giustificare un finanziamento infruttifero
Dato questo quadro, la successiva questione che si pone è se e a quali condizioni il contribuente possa concedere un finanziamento infruttifero, senza che questo venga automaticamente “sindacato” come antieconomico e, quindi, contrario alla normativa sui prezzi di trasferimento.
La problematica è stata affrontata di recente in una ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. 20 maggio 2021 n. 13850). Secondo i giudici di legittimità, non si esclude che i finanziamenti infruttiferi transnazionali tra imprese associate possano avere “cittadinanza” nell'ordinamento.
I giudici di legittimità hanno osservato che, in caso di finanziamento infragruppo erogato dalla società controllante a una società “veicolo” estera:
- l'Amministrazione Finanziaria deve fornire la prova della transazione ad un tasso di interesse apparentemente inferiore a quello “normale”, quale presupposto della ripresa a tassazione degli interessi attivi sul finanziamento, in tutto o in parte non corrisposti, quantificati in base al tasso d'interesse di mercato, la cui determinazione sarebbe una quaestio facti demandata al giudice di merito;
- dal canto suo, il contribuente può fornire la prova contraria, dimostrando l'aderenza del tasso di interesse applicato a quelli di mercato, in particolare, ed è questo il precedente che segna un importante indirizzo da parte dei giudici di legittimità, dimostrando che il finanziamento gratuito è dipeso da “ragioni commerciali” interne al gruppo, connesse al ruolo assunto dalla controllante a sostegno delle consociate.
Da ultimo la Corte di Cassazione è tornata sull'argomento, respingendo inter alia il ricorso incidentale dell'Agenzia delle Entrate avverso la decisione dei giudici di seconde cure che avevano ritenuta corretta la non applicazione degli interessi nei confronti di una consociata estera “giustificata dalla messa in liquidazione di quest'ultima società e dalla conseguente necessità di non aggravare la situazione di deficit patrimoniale della controllata, onde rendere più agevole la liquidazione del patrimonio della stessa senza ulteriori aggravi finanziari verso il gruppo” (così Cass. 12 ottobre 2021 n. 27636, cit.).
Il punto nodale consta, quindi, nella individuazione delle ragioni commerciali che potrebbero giustificare la mancata applicazione di un “prezzo di mercato”, senza che questo rappresenti una pericolosa “deriva” rispetto all'arm's length principle.
Va detto che i principi espressi dalla Corte di Cassazione paiono porsi nel solco della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di compatibilità della normativa sul transfer pricing con le c.d. libertà fondamentali, in particolare la “libertà di stabilimento”, previste dal Trattato UE (C.Giust. UE 21 gennaio 2010 C-311/08, SGI; C.Giust. UE 31 maggio 2018 C-382/16, Hornbach-Baumarkt; C.Giust. UE 8 ottobre 2020 C-568/19, Impresa Pizzarotti).
Al riguardo, la Corte di Giustizia ha statuito che la disciplina sui prezzi di trasferimento prevista in uno Stato membro comporta, in linea di principio, una restrizione alle “libertà fondamentali” ove sia applicabile soltanto alle operazioni con imprese non residenti; tale restrizione può essere “giustificata” dall'obiettivo di garantire la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri, sempreché sia “proporzionata” al raggiungimento di tale obiettivo e tale proporzionalità sarebbe garantita solo se il contribuente sia messo in grado, senza “eccessivi oneri amministrativi”, di produrre elementi relativi alle eventuali “ragioni commerciali” per le quali la transazione è stata conclusa.
Tali “ragioni commerciali” possono, pertanto, essere idonee a giustificare una deviazione dalle condizioni di mercato.
Potrebbe allora avanzarsi l'ipotesi che una società decida legittimamente (ed eccezionalmente) di dare “supporto finanziario” ad una propria controllata estera, senza esigere il pagamento degli interessi (o ritardandolo), in presenza, ad esempio, di un conto economico (della consociata) che si trovi in grave deficit o con una redditività precaria. In questo caso, infatti, la richiesta degli interessi potrebbe compromettere la stessa restituzione del finanziamento. Analoghe considerazioni potrebbero valere per i casi di startup.
Quanto all'Italia, vale ricordare i chiarimenti forniti dall'Agenzia delle Entrate per le operazioni di acquisizione con indebitamento (LBO), nel caso di finanziamenti erogati da soci esteri (Circ. AE 30 marzo 2016 n. 6/E). La riqualificazione del debito (o di parte di esso) in apporto di capitale dovrebbe rappresentare una misura eccezionale. Invero, la nuova versione delle Linee Guida OCSE ha ridefinito i presupposti della c.d. non recognition di un'operazione, sostituendo il principio della c.d. substance over form (che pure aveva ispirato le direttive dell'Agenzia delle entrate) con quello della c.d. commercial rationality, che parrebbe prima facie più stringente (Cass. 20 maggio 2021 n. 13850, cit.).
Per distinguere un finanziamento dall'apporto di capitale, tra gli “altri utili indicatori” assume rilevanza “l'obbligo di pagare interessi”.
Mancata applicazione delle ritenute sugli “interessi figurativi”
La concessione di un finanziamento infruttifero, e la conseguente applicazione del principio di “libera concorrenza”, può avere ricadute anche per la società mutuataria, laddove venga contestata la mancata applicazione delle ritenute sugli “interessi figurativi” che avrebbero dovuto essere corrisposti in applicazione del principio dell'arm's length.
A questi particolari fini, la Corte di Giustizia (causa C-257/20 in commento) ha statuito la compatibilità con il diritto comunitario di una possibile contestazione in materia di mancata applicazione delle ritenute (in uscita) sugli “interessi figurativi”. Secondo i giudici di Lussemburgo, infatti, l'assenza di una effettiva movimentazione finanziaria fa venire meno la possibilità di applicare le direttive comunitarie in materia di “pagamento di interessi” (Dir. 2003/49/CE) e di “utili distribuiti” (Dir. 2011/96/UE).
Le conclusioni della Corte di Giustizia vanno attenzionate nella misura in cui potrebbero trovare applicazione anche nel caso di società mutuatarie italiane, laddove non fosse possibile, come detto, dimostrare le “ragioni commerciali” sottese al finanziamento intercompany a “titolo gratuito”.
In ogni caso, va detto che le conclusioni dei giudici di Lussemburgo si pongono in una diversa prospettiva rispetto alle contestazioni portate avanti dall'Agenzia delle Entrate in materia di cd. incasso giuridico per gli interessi oggetto di rinuncia con riferimento ai finanziamenti concessi a società controllate italiane (sul tema si vedano CTR Lombardia 29 giugno 2021 n. 2427; CTR Lombardia 11 dicembre 2020 n. 2915).
In dette ipotesi, infatti, come rilevato da attenti commentatori, la rinuncia agli interessi presupporrebbe, comunque, il conseguimento del credito il cui importo, seppure non materialmente incassato, viene “utilizzato” dal beneficiario, seppure “con atto di disposizione avente natura di rinuncia” (Cass. 30 gennaio 2020 n. 2057).
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