Fallimento, il superamento dei parametri dimensionali e patrimoniali in misura lieve non è sempre sicura causa di fallimento
Per condurre alla dichiarazione di fallimento sono stati introdotti dalla legge fallimentare dei parametri di natura soggettiva e oggettiva e solo in caso di superamento degli stessi un’impresa risulta fallibile.
In altri termini la legge ha definito delle soglie dimensionali la cui presenza congiunta consente di sottrarle alla disciplina del fallimento.
Più precisamente secondo l’art. 1 L.F. non è fallibile:
- l’impresa che ha avuto, nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività se inferiore), un attivo patrimoniale complessivo annuo non superiore ad euro 300.000;
- l’impresa che ha realizzato, nei tre esercizio precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività se inferiore), ricavi lordi complessivi annui non superiori ad euro 200.000 (si tenga presente che i ricavi che rappresentano il fatturato dell’azienda, si desumono sempre da una voce di bilancio: ricavi “delle vendite e delle prestazioni”, risultanti dalle sole voci A1 e A5 del conto economico);
- l’impresa che ha un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore ad euro 500.000.
Oltre a ciò l’impresa deve trovarsi, ed è questo il requisito di natura oggettiva, in stato di insolvenza.
L’art. 5 L.F. recita testualmente al secondo comma che: “Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Il concetto espresso dalla riportata definizione porta, dunque, a considerare lo stato di decozione sotto il profilo della permanente mancanza di liquidità e di credito tale da comportare nell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie l’impossibilità di reperire quei normali mezzi di pagamento idonei ad estinguere le passività non più dilazionabili.
Con riferimento ai criteri di ordine dimensionale si rileva che in un caso prospettato all’attenzione della Corte d’Appello di Venezia in nessuno dei tre esercizi antecedenti alla data di deposito dell’istanza di fallimento la società aveva conseguito un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo superiore ad euro 300.000, né, per lo stesso periodo, aveva maturato debiti di un ammontare superiore ad euro 500.000.
Viceversa, per quanto afferiva ai ricavi, l’imprenditore in uno dei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento aveva superato leggermente tale limite.
In relazione a tale fattispecie il Tribunale di Treviso aveva considerato che “il fatto che il superamento sia modesto non esclude la sussistenza dei requisiti di legge”, mostrandosi così convinto che un superamento, anche irrisorio e del tutto trascurabile non potrebbe non comportare l’assoggettamento a fallimento dell’impresa.
Invece, Corte d’Appello di Venezia, con l’inedita sentenza 847/14 ha così affermato: “La Corte ritiene di non poter condividere un siffatto approccio alla questione sollevata, ossia di non poter avallare una lettura della disposizione normativa in termini meramente ragionieristici, tale per cui qualsiasi superamento anche minimo, anche infinitesimale, di un unico parametro e per una sola annualità, debba per ciò solo comportare che l’impresa non sia esonerata dal fallimento.”.
Ciò anche perché “la ratio della previsione delle cc.dd. soglie di fallibilità, come risultante anche dalla giurisprudenza costituzionale sul punto (Corte Cost. 570/89, 198/09), mira ad escludere dall’assoggettamento a fallimento imprese la cui crisi, per dimensioni aziendali e per entità del dissesto, non sia in grado di suscitare un allarme sociale e che non sia tale da giustificare l’apertura di una procedura concorsuale complessa, onerosa e impegnativa come il fallimento. Si è in tal senso efficacemente osservato che, in siffatte ipotesi, le spese della procedura fallimentare finiscono non di rado per assorbire interamente l’esiguo patrimonio attivo del fallito con ciò evidenziando che si tratta di un rimedio processuale addirittura “impeditivo della tutela dei creditori e un mezzo di difesa insufficiente “.
Peraltro veniva adeguatamente valorizzato l’ultimo comma dell’art. 1 della legge fallimentare in forza del quale “i limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministero della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento”.
Infatti, la ratio della norma è quella di aggiornare i relativi limiti, senza la necessità di un macchinoso intervento legislativo, adeguandoli alle variazioni dell’Istat.
Del resto la disposizione è sicuramente opportuna, tenendo anche conto che il limite del capitale investito nell’impresa, previsto dalla disciplina antecedente la riforma del 2006, era stato dichiarato incostituzionale proprio in quanto il suo mancato adeguamento al valore corrente della moneta lo aveva reso fonte di ingiustificate discriminazioni.
In altri termini per evitare che i parametri di valore innanzi indicati potessero divenire inadeguati nel tempo, è stato previsto un aggiornamento sulla base della media delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati via via intervenute.
Per tutto quanto sopra la Corte adita, ritenendo quindi che l’inutilità dello strumento fallimentare debba ravvisarsi quando i limiti importi vengano superati in misura lieve, revocava il fallimento della società.
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